Il GDPR non è un lusso ma una leva strategica per competere

La possibilità di dimostrare – con prove concrete – di essere conformi è un fattore di differenziazione tanto quanto la qualità del prodotto o la solidità finanziaria.

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Per Luciano Quartarone, CISO & DPO, Archiva Group,  il GDPR per le aziende non è un lusso ma un indicatore della maturità organizzativa oltre che una leva strategica per competere.

Negli ultimi tre anni, i provvedimenti del Garante per la protezione dei dati personali hanno messo nero su bianco un messaggio inequivocabile: la compliance al GDPR non è un lusso né un esercizio burocratico. È un indicatore della maturità organizzativa, un test di resilienza e – per le aziende più lungimiranti – una leva strategica per competere. Chi guarda alle sanzioni solo come a un “costo” o a un fastidio normativo, perde di vista la loro funzione più preziosa. Infatti sono radiografie dettagliate delle lacune sistemiche che minano la credibilità, la sicurezza e la capacità di generare fiducia.

Dal caso isolato alla governance: il vero problema

Le violazioni non nascono quasi mai da incidenti singoli. Spesso emergono da una governance debole, ruoli mal definiti, processi di sicurezza non integrati e un approccio reattivo anziché preventivo. I casi recenti lo dimostrano chiaramente: dall’uso di algoritmi con hashing obsoleti (come l’MD5) fino alla gestione di incidenti ransomware senza metriche di rilevamento e risposta misurabili. Questi non sono solo errori tecnici: sono la prova di una cultura organizzativa che non evolve e non presidia attivamente il rischio.

GDPR: le quattro aree dove le aziende inciampano più spesso

L’analisi dei provvedimenti del Garante nel triennio 2022–2024 evidenzia ricorrenze che ogni C-level dovrebbe conoscere:

  • Misure di sicurezza inadeguate (art. 32 GDPR). Mancanza di risk assessment aggiornati, policy “sulla carta” e scarsa integrazione della sicurezza nei processi.
  • DPIA assenti o generiche (art. 35). Strumenti invasivi, come sistemi di riconoscimento facciale o videosorveglianza, introdotti senza analisi preventiva dell’impatto sui diritti delle persone.
  • Trasparenza informativa carente (artt. 13 e 14). Informative incomplete, scritte in linguaggio tecnico o rese inaccessibili, con conseguente perdita di fiducia da parte di utenti e clienti.
  • Contratti con i responsabili del trattamento dei dati inadeguati (art. 28). Deleghe a fornitori senza atti formali, che compromettono tracciabilità, controllo e responsabilità legale.

Dal GDPR come vincolo al GDPR come asset competitivo

Le aziende che trattano la protezione dei dati come parte integrante della strategia – e non come check-list formale – guadagnano vantaggi concreti:

  • Più fiducia sul mercato, soprattutto nei settori ad alta regolamentazione.
  • Migliore efficienza operativa, grazie a processi chiari e ruoli definiti.
  • Accesso facilitato a gare e partnership, dove la compliance documentata è prerequisito.

In un’economia interconnessa, la possibilità di dimostrare – con prove concrete – di essere conformi, sicuri e trasparenti è un fattore di differenziazione tanto quanto la qualità del prodotto o la solidità finanziaria.

Guardare la sanzione come una bussola

Ogni provvedimento del Garante racconta due storie: quella dell’azienda sanzionata e quella di chi può imparare da un caso specifico/pratico. La scelta è semplice: ignorare i segnali e ripetere gli errori, o trasformare questi casi in linee guida operative per rafforzare governance, processi e reputazione. La protezione dei dati non è più un capitolo a parte nella strategia aziendale: è una componente della qualità e della competitività. E, come dimostrano le sanzioni, ignorarlo non è solo rischioso. È un errore strategico.